Vecchioni e la Sicilia

Così a distanza di anni aprì la mano e aveva tre monete d’oro finto………. questo l’incipit di una delle canzoni che più ho amato da giovane del professore cantautore milanese.
Così nel leggere la frase incriminata di Vecchioni sulla mia Sicilia, non so bene quale artificio mentale ha condotto il mio pensiero a quel malinconico e nostalgico brano, probabilmente la presa di coscienza di quello che ci siamo persi nella vita: una storia d’amore nella canzone, le grandi potenzialità profanate nel caso della Sicilia. In entrambi i casi: il vuoto e grandi rimpianti. Così l’associazione di idee tra l’oro finto delle monete nel pugno e la triste realtà della situazione della Sicilia. Da sfondo l’immagine di quelle che potevano essere  grandi storie.
La cronaca è nota nel corso di una conferenza tenuta alla facoltà di ingegneria di Palermo, Vecchioni non ha esitato a definire la Sicilia un’isola di merda. Una frase sicuramente forte, che come al solito non va letta singolarmente, ma all'interno di un ragionamento più ampio.
Così inizi a leggere tutto l’intervento, non è solo un’accusa gratuita; nasce da una rabbia, da una riflessione. La riflessione di chi oltre ad essere un cantante di musica leggera è stato anche professore di lettere in un liceo classico, un amante del greco antico e ovviamente della magna Grecia.
Così parte da alcune riflessioni, che si susseguono in crescendo: “Non amo la Sicilia che rovina la sua intelligenza e la sua cultura. Che quando vado a vedere Selinunte, Segesta non c’è nessuno. Non amo questa Sicilia che si butta via”; “I siciliani sono la razza più intelligente che esiste al mondo, mi dà un fastidio tremendo che la Sicilia non sia all’altezza di se stessa”. Fino a giungere alla frase dura ma che va letta in questo contesto.
Io non mi arrabbio con Vecchioni, mi indigno e rifletto.
Cosa è la Sicilia se non una terra di forti contrasti? Se la attraversi in auto non puoi non notare e ammirare quei colori forti in netta contrapposizione tra loro: l’azzurro del cielo e il giallo dei campi, il marrone della terra e il blu del mare. Se la vivi non puoi restare colpito dalla modernità, a volte eccessiva, di alcuni luoghi e l’arretratezza dell’entroterra. L’amore per le tradizioni e l’abbandono della propria cultura. Per non dire del torpore e dell’assuefazione della popolazione  rispetto alle brutture giornaliere e alla cattiva amministrazione, che si contrappone alla violenta reazione civile di fronte ad accadimenti gravi.
Forse è questa la chiave di lettura che si deve dare alle parole del cantautore,  una presa di coscienza su quello che gli altri pensano di noi, uno stimolo per reagire e provare a dimostrare che le affermazioni sulla nostra intelligenza non restino solo di principio, ma si estrinsechino non nell'individualismo di alcuni, ma nel senso civico di tutti. E non è il caso di scomodare stavolta Garibaldi, Cavour e i borboni. L’unità di Italia è passata da un pezzo.
In un saggio di uno scrittore siciliano che ho letto qualche tempo fa, mi ha colpito questa frase: “per i siciliani migliori, il rapporto con la propria terra nella migliore delle ipotesi è rimpianto, rimorso o senso di colpa”.

Forse è il momento di tirare fuori l’orgoglio e non imputare ad altri le colpe che sono anche nostre, solo così, forse, il nostro sentimento verso la Sicilia non sarà un solo senso di colpa o la  malinconia per una storia d’amore finita e non apprezzata a suo tempo, come ha fatto il protagonista della canzone di Roberto Vecchioni.

Commenti

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  2. Credo sia frequente fra voi siciliani, di scoglio o di mare aperto che siate, la convinzione che le vostre cose non possano essere comprese dai continentali. Non è del tutto infondata temo. E allora frasi come quelle di Vecchioni (mi è sempre stato sulle palle, più che altro per beceri motivi calcistici) non saranno frasi di chi ha capito, ma di sicuro somigliano alle parole incazzate di chi schiaffeggia un amico che sbaglia: a loro modo un gesto d'amore.
    Non puoi non aspettarti che ti ricordi quanto scritto da Tomasi sul punto:
    "Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall'altra, come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. 'They are coming to teach us good manners' risposi 'but wont succeed, because we are gods.' 'Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.' Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a Lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?"

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